Antidepressivi: Quando e Come usarli

Gentili utenti, pubblico qui la traduzione dall’inglese dei paragrafi più interessanti del fondamentale articolo sull’uso razionale degli antidepressivi scritto  dallo psichiatra-psicoterapeuta italiano ma di fama mondiale, Giovanni Fava. Se potete, leggete direttamente l’articolo originale in inglese ( PDF dell’articolo originale); se no, leggetene la traduzione che, data l’importanza dell’argomento, ho fatto per facilitarvene la lettura. In marroncino e tra parentesi ci sono miei commenti e chiarimenti. 

Rational Use of Antidepressant Drugs 

Giovanni A. Fava (Affective Disorders Program, Department of Psychology, University of Bologna,  Department of Psychiatry, State University of New York at Buffalo N.Y. , USA). Psychother. Psychosom. (2014)

1) Tolleranza e sue differenti espressioni
Molti fenomeni clinici son stati documentati durante il trattamento con antidepressivi a) perdita di efficacia antidepressiva, b) tachifilassi, c) resistenza, d) effetti paradossi, e) passaggio verso una forma bipolare e f) reazioni da sospensione.

a) Perdita di efficacia

La prevalenza (percentuale) di un ritorno di sintomi depressivi durante il trattamento con farmaci antidepressivi era del 9-57% nelle ricerche pubblicate indicando l’esistenza di fenomeni di tolleranza durante il trattamento (la tolleranza ad una data sostanza è una sorta di abitudine che porta alla perdita di efficacia del trattamento pur rimanendo le dosi di farmaco invariate; la percentuale varia dal 9 al 57% e questo disorienta ma il motivo è che più aumenta il tempo di osservazione, più alta diventa la percentuale di pazienti che ricadono. Se si guarda cioè quanti ricadono nella depressione dopo solo 6 mesi di trattamento, forse si trova un 5% ma se ci fossero studi –  non ci sono perchè non conviene farli – che guardassero quanti ricadono dopo 5 anni, probabilmente si troverebbe una percentuale del 95%). Questa (la percentuale di ricadute) aumenta con la durata del trattamento; in una meta-analisi riguardante studi di mantenimento, questo rischio di ricaduta progressivamente aumentava dal 23% entro 1 anno, al 34% entro 2 anni fino al 45% entro 3 anni. (pensate dunque che già dopo 3 anni un antidepressivo non funziona più nella metà dei casi!). Il termine “tachifilassi” (la progressiva decrescita nella risposta ad una data dose dopo la ripetuta somministrazione di una sostanza fisiologicamente o farmacologicamente attiva) è stato anche usato per designare la ricaduta durante il trattamento di mantenimento o il deterioramento clinico caratterizzato da sintomi come apatia e astenia. (in ambito divulgativo, si può assumere che  tachifilassi e tolleranza siano sinonimi).

L’efficacia di un aumento di dosaggio nelle ricadute durante un trattamento di mantenimento per depressione maggiore fu valutato in uno studio controllato riguardante la Fluoxetina somministrata al dosaggio giornaliero di 20 mg o a quello settimanale di 90 mg; il 57% dei pazienti al dosaggio giornaliero e il 72% di quelli a dosaggio settimanale rispondevano all’aumento di dosaggio. Un paziente tra i 5 che inizialmente avevano risposto all’aumento di dosaggio ricadde di nuovo durante le 25 settimane della ricerca; è ipotizzabile che sarebbero state osservate più ricadute con la continuazione della ricerca come è nel caso della depressine ricorrente. (Qui c’è un concetto a cui tengo moltissimo: quando una certa molecola ha perso ormai efficacia perchè usata per troppo tempo, è poco utile aumentarne il dosaggio in quanto, a breve, ci sarà una nuova ricaduta in seguito alla quale lo psichiatra potrebbe aumentarvi ancora il dosaggio fino ad arrivare in breve tempo a dosi folli e dannose; per fare un esempio, se la prima volta che usate una certa molecola, l’effetto antidepressivo si mantiene buono per tre anni, dopo la prima ricaduta e il relativo aumento di dosaggio, starete bene magari per 6 mesi e alla seconda ricaduta e nuovo aumento, starete bene magari 3 mesi, poi 1 mese soltanto, poi 1 sola settimana, pur avendo raggiunto un dosaggio folle di farmaco. Dopo la prima ricaduta perciò, io consiglio di non insistere ancora con quella data molecola aumentandone il dosaggio, ma di  cambiare subito molecola ricominciando con dosaggi bassi e probabilmente efficaci). Dati simili furono ottenuti in una ricerca placebo-controllo con la Duloxetina.

Degno di nota (è) che in due piccoli studi controllati, la psicoterapia fatta senza modificare le dosi di farmaco fu significativamente più efficace dell’aumento di dosaggio nel produrre una remissione persistente dei sintomi nei pazienti depressi che mostravano una perdita di effetto clinico durante il trattamento di mantenimento con farmaci antidepressivi.

b) Resistenza al trattamento antidepressivo

C’è una notevole confusione riguardo al termine resistenza nei disturbi dell’umore poiché esso è applicato sia alla malattia depressiva (un episodio che non risponde al farmaco o alla psicoterapia) che alla perdita di risposta ad un precedente efficace trattamento antidepressivo quando esso è riiniziato dopo un periodo trascorso senza farmaco. Il primo significato è quello prevalente ma anche il secondo è degno di attenzione clinica. In realtà, una perdita di risposta dopo un reinizio di terapia fu trovato accadere in un quarto di casi in uno studio osservazionale. Ancora, si è trovato che una precedente esposizione a farmaci antidepressivi induce resistenza ad antidepressivi diversi da quelli utilizzati nella prima ricerca.
La resistenza fu analizzata in uno studio su 122 pazienti che dopo aver inizialmente risposto alla Fluoxetina furono assegnati al placebo. Circa la metà dei pazienti ricadde. Dopo la reintroduzione del farmaco, Il 38% dei pazienti non rispose o rispose ma di nuovo ricadde. I dati disponibili perciò indicano che quando un trattamento farmacologico è reintrodotto, un paziente può non rispondere al medesimo antidepressivo che aveva inizialmente migliorato i sintomi depressivi. La prevalenza di questo tipo di resistenza varia. I pazienti che rispondono alla reintroduzione dello stesso antidepressivo possono mostrare una successiva perdita di effetto terapeutico.
Questo suggerisce che la resistenza e la perdita di efficacia possono essere correlate e condividere un meccanismo comune.

c) Effetti Paradossi

Nel 1968 di Mascio et al. Studiarono gli effetti dell’Imipramina su individui con vari livelli di depressione usando una procedura in doppio cieco placebo-controllo. Essi trovarono un aumento dei livelli di depressione dopo l’uso di Imipramina in soggetti con il più basso livello di depressione. Questo primo studio suggerì la possibilità che quando i sintomi sono minimi, gli antidepressivi possano essere più di danno che di vantaggio in certi individui. L’uso di antidepressivi può essere associato non soltanto col ritorno di sintomi depressivi durante il trattamento di mantenimento ma anche con la comparsa di nuovi sintomi e un’esacerbazione del quadre clinico di base (effetti paradossi). Un miglioramento può risultare dall’interruzione del trattamento antidepressivo.
La manifestazione di effetti paradossi fu riportata in ricerche in doppio cieco placebo-controllo con Fluoxetina e Sertralina.

El-Mallakh et al. hanno introdotto il concetto di disforia tardiva che può essere annullata dalla diminuzione graduale o dall’interruzione dell’antidepressivo.

Fux et al. osservarono un’emergenza di sintomi depressivi in 7 su 80 pazienti (9%) durante il trattamento del disturbo di panico con Fluvoxamina. Questi pazienti non avevano una storia di disturbi dell’umore e non erano presenti sintomi di depressione prima del trattamento con Fluvoxamina. I sintomi sparirono quando la Fluvoxamina fu interrotta e furono prescritti un antidepressivo triciclico (TCA) o Clonazepam, ed essi riapparvero quando fu somministrata fluoxetina. Simili problemi erano sorti con l’uso di TCA in disturbi d’ansia. Raja descrisse 9 casi con un’eccellente risposta ad un primo trattamento seguita da una perdita di efficacia, resistenza, e peggioramento con la prosecuzione del trattamento. Egli documentò come le tre manifestazioni cliniche descritte sopra possano essere correlate e parte di una stessa sindrome.

e) Slittamento verso un disturbo bipolare

Il trattamento con antidepressivi è stato associato con mania o altre forme di attivazione comportamentale eccessiva. Queste risposte possono rivelare un disturbo bipolare non riconosciuto o possono essere indotte dal farmaco dal momento che possono avvenire in pazienti ritenuto unipolari. Nei primi anni 80 Kukopulos et al. osservarono come il trattamento con antidepressivi possa contribuire ai cambiamenti nel corso della malattia da unipolare a bipolare.
Essi hanno il merito di di aver sollevato la questione che la mania indotta dalgi antidepressivi possa non essere semplicemente un temporaneo e pienamente reversibile fenomeno ma possa elicitare meccanismi biochimici complessi di deterioramento della malattia.
Il suo gruppo ha anche descritto l’associazione tra antidepressivi, che fossero TCA o inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), con depressione mista, definita come depressione con sintomi eccitatori. Badere e Dunner[30] retrospettivamente riesaminarono i dati di 146 pazienti con depressione resistente al trattamento. Di questi, 16 avevano sperimentato nuovi episodi ipomaniacali durante il trattamento con antidepressivi. Dal momento che soltanto 1 paziente aveva riferito una storia familiare di disturbo bipolare, questi episodi sembrarono essere specificatamente indotti dall’esposizione ad antidepressivi
Un riesame sistematico e una meta-analisi riguardante l’eccessiva elevazione del tono dell’umore e dell’attivazione comportamentale nei bambini e negli adolescenti rivelò che le percentuali di eccessivo eccitamento erano molto alte sia nei casi di ansia che di depressione curati con antidepressivi e molto più basse col placebo. Inoltre, l’incidenza di manifestazioni di mania o ipomania era molto più alta di quella presente in descrizioni comparabili e coinvolgenti adulti ansiosi e simile alle percentuali riportate per adulti depressi, tutti trattati con antidepressivi. Quindi, nei disturbi d’ansia e particolarmente nei pazienti più giovani, il rischio di sviluppare attivazione comportamentale può esserci anche con l’uso di antidepressivi, particolarmente nei pazienti più giovani.

f) Reazioni da sospensione

I sintomi da astinenza dovuti alla sospensione del trattamento antidepressivo, furono riconosciuti ben presto dopo l’introduzione di questi farmaci. Furono descritti per qualsiasi tipo di antidepressivo ma particolarmente per gli SSRI, Venlafaxina e Duloxetina. Tali sintomi di astinenza furono in modo generico definito come “sindrome da discontinuazione” col proposito di evitare ogni riferimento ad un potenziale di dipendenza dagli SSRI che potesse rovinarne le vendite. La sindrome da astinenza è caratterizzata da un ampio spettro di sintomi somatici come mal di testa, vertigine, affaticamento, diminuito appetito disturbi del sonno (sogni vividi e insonnia) sonnolenza, sintomi simil- influenzali, nausea e vomito. Meno comuni sintoni fisici includono mialgie, parkinsonismo, difficoltà di equilibrio, e aritmie cardiache. Possono manifestarsi inoltre sintomi psicologici come agitazione, ansia, attacchi di panico, disforia, confusione e peggioramento dell’umore. I sintomi di astinenza appaiono tipicamente entro 3 giorni dalla sospensione o scalaggio del farmaco antidepressivo. Se non trattati, i sintomi possono essere doderati e risolversi spontaneamente entro 1-3 settimane; in altri casi, possono persistere per mesi o anche anni portando a ciò che è stata definita come “ sindrome persistente post- sospensione” Tuttavia, questo non fu confermato da uno studio controllato-randomizzato che confrontava lo scalaggio lento e rapido e in uno studio osservazionale. La sospensione degli antidepressivi può inoltre provocare la comparsa di ipomania o mania nonostante il concomitante trattamento con stabilizzatori dell’umore.
Tale sindrome si può autolimitare, può cessare con il ripristino dell’antidepressivo o può richiedere un trattamento anti-maniacale specifico. L’elevazione dell’umore può ancora presentarsi con la diminuzione del dosaggio e i pazienti che non rispondevano agli stabilizzatori dell’umore in combinazione con l’antidepressivo, possono migliorare dopo la sospensione dell’antidepressivo. I sintomi di astinenza possono essere fraintesi come indicatori di ricaduta imminente e possono portare a una ripresa del trattamento.

Il modello di tolleranza opposta 

I fenomeni clinici che sono stati descritti possono essere unificati sotto il “Modello opposto di tolleranza”. In accordo con questo modello, un trattamento farmacologico prolungato può reclutare processi contrapposti all’iniziale effetto acuto del farmaco. Questo può spiegare la perdita di efficacia.

Esso può anche portare una patologia verso un decorso più maligno e non responsivo al trattamento come è il caso di un decorso bipolare o reazioni paradosse (effetti paradossi).

Quando si pone termine al trattamento farmacologico, processi oppositivi possono operare per diverso tempo dando luogo a sintomi di astinenza, ad aumentata vulnerabilità alle ricadute o a resistenza al trattamento qualora l’antidepressivo venga reintrodotto. Questi fenomeni dovrebbero essere tenuti a mente quando si decide di iniziare una terapia antidepressiva soppesandone i pro e i contro. C’è evidenza che il rischio di ricaduta dopo aver sospeso una terapia antidepressiva sia da interpretare in accordo col “Modello di tolleranza opposta”, supportando l’ipotesi che, in certi casi, un trattamento a lungo termine con antidepressivi, possa aumentare la cronicità della patologia e sensibilizzare a suoi successivi episodi.

Trattamento di un episodio depressivo maggiore

Se vogliamo collocare i pro e i contro di una terapia antidepressiva nel contesto del rischio, della risposta e della vulnerabilità e scegliere l’approccio più appropriato ad un dato paziente, c’è bisogno di un certo numero di strategie di valutazione per supplementare la diagnosi di disturbo depressivo maggiore

Valutazione
L’indicazione primaria per l’uso degli antidepressivi è il trattamento del Disturbo Depressivo Maggiore ma la loro effettiva efficacia è stata gonfiata da alcuni singoli resoconti di studi fatti con risultati positivi.

Inoltre sembra che gli antidepressivi non siano più efficaci del placebo nelle depressioni leggere o medie.

Anche se un certo grado di severità è stabilito, la soglia clinica prevista dai criteri diagnostici può essere abbassata dalla presenza di disturbi d’ansia; la depressione ansiosa meno facilmente risponderà al trattamento antidepressivo della depressione apatica.
Nell’ambito della comorbilità – ed è così nella maggior parte dei casi – c’è la possibilità di porre particolare enfasi su sintomi specifici, invece di tenerne semplicemente conto [48]. Per esempio, alle caratteristiche che sono più predittive di una risposta positiva agli antidepressivi (anoressia, perdita di peso, insonnia di mezzo o finale e disturbi psicomotori) può essere data maggiore enfasi che ad altri sintomi.

Un’altra questione importante riguarda la distinzione tra depressione primaria e secondaria basata sulla cronologia [48]. Difficilmente le depressioni secondarie avranno una totale remissione con l’uso di un solo psicofarmaco.

Infine, quando è stata stabilita la severità di un episodio depressivo maggiore, si dovrebbe porre attenzione su eventuali caratteristiche suggestive di bipolarità o sulla familiarità.

Una questione spesso poco considerata, è che i pazienti che presentano un episodio depressivo maggiore, stanno già assumendo una terapia antidepressiva. In questo caso, è l’episodio correlato ad una perdita di efficacia clinica (del farmaco) oppure (è correlato) alla resistenza dopo la ripresa del trattamento?
Il termine “comorbidità iatrogena” si riferisce agli effetti duraturi che i trattamenti precedenti possono comportare, ben oltre il periodo di somministrazione [50]. Tali effetti possono influenzare il trattamento successivo.

La stadiazione può essere una strategia molto utile nello studio di un disturbo depressivo e serve per analizzare il suo corso longitudinale (la sua evoluzione) o la storia della resistenza al trattamento [51].

Quando usare un antidepressivo

L’ampiezza del beneficio ottenuto con l’uso di un antidepressivo, comparato col placebo, aumenta con la gravità della depressione. Se un paziente soffre di una grave depressione ci sono pochi dubbi che la farmacoterapia possa apportare un benficio sostanziale anche se naturalmente, la risposta può variare da paziente a paziente. Comunque, se sono presenti sintomi di lieve o moderata intensità, i benefici possono essere minimi o non esserci. L’ignoranza dei fenomeni clinici correlati alla tolleranza può spingere un medico a dare un antidepressivo per prova, una posizione che non tiene conto dell’evidenza che anche il placebo è efficace in questi casi lievi o moderati di depressione e che i sintomi depressivi sarebbero scomparsi ugualmente somministrando sostanze aspecifiche. Un’alternativa è posporre la prescrizione dell’antidepressivo e rivedere il paziente dopo un paio di settimane. Questo può essere particolarmente importante nell’ambito delle malattie fisiche, dove la depressione può migliorare in seguito al miglioramento delle condizioni cliniche e/o in seguito alla dimissione dall’ospedale. Se i sintomi miglioreranno, l’antidepressivo sarà superfluo; se persisteranno (o peggioreranno), allora l’uso di un antidepressivo sarà giustificato.

La scelta di un antidepressivo

I vari tipi di antidepressivo possono essere sostanzialmente equivalenti come efficacia nel caso comune di depressione.
Una tale asserzione comunque può essere applicata al primo episodio di depressione in un paziente che non sia mai stato trattato con antidepressivi. [Tale affermazione è molto importante: se una persona inizia ora un trattamento antidepressivo per la prima volta in vita sua, diciamo che un antidepressivo vale l’altro e la sua sensibilità a tali molecole sarà alta. Ma se egli invece ha assunto già per anni una certa molecola che ora non fa più effetto, si dovrà tenere conto del fatto che molecole dal profilo simile probabilmente saranno ugualmente inefficaci. Se cioè ha assunto ad esempio per anni un SSRI (serotoninergici puri, o quasi) e adesso i sintomi sono tornati, sarà bene che ora passi, ad un SRNI, molecole che innalzano i livelli non solo della serotonina ma anche della noradrenalina; se l’antidepressivo che ha perso efficacia era già un SNRI, sarà bene che passi ad un Triciclico]

Anche in tale caso [cioè nel caso un paziente inizi ora ex novo un trattamento antidepressivo] ci sono [comunque] importanti questioni da considerare:

  1. I Triciclici, nonostante i loro effetti collaterali, possono essere più efficaci degli SSRI nella depressione melanconica [un tipo di depressione molto dolorosa, caratteristica degli emotivi, caratterizzata da perdita di sonno e appetito, tristezza, pianto frequente e forte angoscia].
  2. L’efficacia e tollerabilità di Venlafaxina e Duloxetina sono state sovrastimate e il loro uso come trattamento di prima linea è ora discutibile.
  3. Con la seconda generazione di antidepressivi ci possono essere differenze nella frequenza di presentazione degli effetti collaterali.

Comunque, se un paziente è già stato trattato con antidepressivi, la scelta deve tenere conto della storia del trattamento del paziente, cioè la sua comorbidità iatrogena e se egli o ella ha mostrato una perdita di efficacia clinica, resistenza, astinenza, reazioni paradosse o attivazione comportamentale con riguardo a specifici agenti. [Molecole specifiche]
Purtroppo c’è una letteratura molto esigua che abbia correlato la risposta ad un antidepressivo con la precedente storia di trattamento.
Ci sono dati insufficienti per indicare che certi tipi di antidepressivo inducano tolleranza più facilmente di altri tipi anche sebbene questa sia una questione che necessiterebbe di essere indagata.
E’ ragionevole ritenere che se un paziente ha sperimentato tolleranza per una certa classe di molecole, allora quella classe dovrebbe probabilmente essere evitata, ma questo resta da testare adeguatamente.

Gestione della psicoterapia

Ogni atto terapeutico può essere visto come risultato di ingredienti multipli che possono essere specifici o non specifici; (un ingrediente della terapia specifico è un farmaco, aspecifico è, ad esempio, un consiglio sullo stile di vita da adottare) non è semplicemente dovuto alla somma netta di benefici ed effetti avversi ma alla loro interazione variabile.
La gestione psicoterapeutica (applicazione di conoscenze psicologiche alla gestione e alla riabilitazione di un paziente, che includono lo stabilire una relazione terapeutica, l’identificazione dei problemi attuali con procedure di identificazione del problema e di incoraggiamento all’auto-terapia) è spesso confusa con la psicoterapia formale. (Significa che, oltre alla psicoterapia convenzionale avente un indirizzo, una prassi e un prolungato tempo di svolgimento,  è bene utilizzare una psicoterapia spicciola che e si occupa di aspetti pratici)
Ad esempio, quando si compila una prescrizione di farmaci, l’aggiunta di un’altra prescrizione con semplici indicazioni in termini di programmazione ed esposizione ad un compito per casa può incoraggiare modifiche allo stile di vita che possono avere un impatto sull’effetto del farmaco. (Tale psicoterapia spicciola è indispensabile per bendisporre il paziente alla terapia farmacologica. A molti è capitato di trovare psichiatri che prescrivono psicofarmaci come fossero antibiotici, senza preparare per nulla il paziente ad eventuali effetti collaterali allarmanti ma innocui che possono però far sospendere la terapia al paziente per paura. Ancora, la psicoterapia pratica e spicciola di cui parla Fava, serve a far capire al paziente che la chimica da sola non basta certamente; è buona prassi ad esempio consigliare al paziente una regolare attività motoria aerobica accanto alla terapia antidepressiva. Il concetto fondamentalmente è questo: se non cambi stile di vita, cessata la terapia psicofarmacologica, tutto tornerà come prima).
Le aspettative, le preferenze, la motivazione, l’ambivalenza circa le terapie, e la disponibilità al cambiamento sono tutte caratteristiche che possono influire sull’esito del trattamento. (e quindi sono tutti aspetti cognitivi ed emotivi del paziente che vanno valorizzati, indagati ed eventualmente corretti). 

Durata del trattamento
Il tempo di guarigione da una depressione è molto individuale ma per raggiungere un livello soddisfacente di benessere sembrano essere necessari, per la maggior parte dei pazienti, almeno 6 mesi di trattamento farmacologico. Questo tempo può essere accorciato a 3 mesi (scalaggio escluso) se si utilizza una combinazione sequenziale di farmacoterapia e psicoterapia. In realtà i benefici di applicare strategie psicoterapeutiche alla sospensione di un antidepressivo sono massimi  non durante lo scalaggio di esso ma nel periodo successivo alla sua totale dismissione.

C’è una tendenza a protrarre il trattamento farmacologico per un lungo periodo di tempo con la credenza che esso possa essere protettivo contro la ricaduta. In una meta-analisi, Kaymaz e altri hanno trovato che l’antidepressivo riduce (effettivamente) il rischio di ricaduta nella fase di mantenimento. Comunque, pazienti con episodi depressivi multipli sperimentavano in modo significativo meno benefici nella prevenzione della ricaduta durante la fase di mantenimento con antidepressivi di quelli con un singolo episodio.  Questi dati suggeriscono che nei pazienti con depressione ricorrente, la ricaduta è difficile da controllare soltanto con l’antidepressivo. Viguera et al. [65] analizzarono 27 studi con una lunghezza variabile di trattamento antidepressivo e controllo del paziente nel periodo successivo alla dismissione del farmaco. Secondo uno di questi studi, il rischio di ricaduta dopo dismissione del farmaco era significativamente maggiore nei casi di depressione maggiore trattati a lungo dopo la risoluzione dell’episodio. La lunghezza del primo trattamento antidepressivo fu messo in relazione alla ricaduta in un campione di 9243 pazienti trattati con SSRI. I soggetti furono seguiti per 5 anni e divisi in utilizzatori brevi (che sospesero l’antidepressivo entro 6 mesi), utilizzatori continuativi (che ricevettero l’antidepressivo per 6-12 mesi) e utilizzatori persistenti (che furono trattai con antidepressivo per più di 12 mesi). Non furono trovate differenze nel tempo di ricaduta tra i pazienti che vennero trattati per 6 mesi e quelli trattati per 6-12 mesi. Quelli che (invece) ricevettero l’antidepressivo per più di 1 anno mostrarono un 23% di rischio in più di avere un secondo episodio rispetto agli utilizzatori brevi. Questi risultati furono confermati in un successivo studio che non riportava differenze nel rischio di ricaduta tra utilizzatori brevi e continuativi.

Un altro aspetto negativo del trattamento a lungo termine con antidepressivi è costituito dai seri e fastidiosi effetti collaterali che possono insorgere con l’utilizzo di SSRI come l’alta percentuale di disturbi sessuali, il sanguinamento (in particolare gastrointestinale), l’aumento di peso, il rischio di fratture e osteoporosi, l’iponatriemia. Tali effetti possono essere più pronunciati nell’ambito dei disturbi medici internistici dove dovrebbero essere considerate anche le (possibili) interazioni tra farmaci. Queste considerazioni suggeriscono che il trattamento con antidepressivi dovrebbe essere più breve possibile anche se è difficile abbreviarlo a meno di 3 mesi (scalaggio escluso). Quando il paziente smette di migliorare, questo è probabilmente il momento di dare inizio allo scalaggio del farmaco, al ritmo più lento possibile, con decrementi ogni 2 settimane.

Nei pazienti per i quali lo scalaggio non è fattibile (circa il 20% di casi in studi sequenziali), il trattamento (allora) dovrebbe essere protratto. Ma questo opzione dovrebbe essere seguita soltanto se alternative hanno fallito o non possono essere attuate. (come ad esempio l’opzione psicoterapia che non sempre è fattibile, come nel caso dei pazienti con depressione psicotica).

Depressione resistente al trattamento

Molto raramente una separazione dei fenomeni clinici correlati alla tolleranza è attuata quando si indaga la resistenza al trattamento della depressione.

Lo “Studio della Sequenza di Trattamenti Alternativi per il sollievo dalla depressione”  può illustrare l’importanza di prendere in considerazione le (singole) manifestazioni di tolleranza.  Lo scopo della ricerca era di applicare le migliori strategie farmacologiche per ottenere la remissione nella depressione maggiore.

I pazienti che non guarivano (col classico trattamento basato sull’uso di una molecola antidepressiva per almeno 6 settimane) erano sottoposti a quattro passaggi sequenziali che comprendevano strategie di cambio (di molecola), potenziamento (aggiunta di un’altra molecola potenziante l’effetto antidepressivo della prima che agisca sullo stesso bersaglio molecolare: ad esempio dare due antidepressivi) e combinazione (assunzione di 2 o più molecole che agiscono su bersagli molecolari differenti, come ad esempio un antidepressivo e un ansiolitico) , basate sulla letteratura disponibile. I risultati furono piuttosto deludenti. La percentuale cumulativa di remissione dopo i 4 passi sequenziali fu del 67% e (addirittura) se si guardava alla la remissione totale (tenendo conto della percentuale di ricadute in corso di trattamento), la percentuale cumulativa era del 43% (cioè scendeva dal 67% al 43%). Questo significava che lo sforzo strenuo dopo il passo 1 (il trattamento veniva iniziato con Citalopram) aggiungeva (soltanto) un 6% di remissione completa.

Nonostante ogni fase della ricerca fosse accuratamente concepito per aumentare la probabilità di risposta nei pazienti che non miglioravano, la percentuale di remissione decresceva dopo ogni passaggio di trattamento. La percentuale di ricaduta aumentava dopo ogni passaggio di trattamento nei pazienti che raggiungevano la remissione. Inoltre, l’intolleranza (abbandono della terapia per qualsiasi ragione durante le prime 4 settimane, o successivamente per effetti collaterali) aumentava dopo ogni fase di trattamento.

Molti dei dati provenienti dallo studio STAR* D possono essere interpretati alla luce del fenomeno della tolleranza opposta: modifiche farmacologiche, sia cambiando molecola che affiancando ad essa altre molecole (fasi 1 e 2) , possono spingere la malattia depressiva verso una fase refrattaria, caratterizzata da bassa remissione, alta percentuale di ricaduta e di intolleranza (fasi 3 e 4).

Le strategie di potenziamento (affiancamento di altri farmaci allo scopo di aumentare l’effetto della molecola antidepressiva che non dà risultati ottimali) dovrebbero essere probabilmente completamente evitate (mentre) il cambio di molecola dovrebbe seguire un ragionamento clinico basato sulla storia del trattamento del paziente e degli episodi di tolleranza.

Antidepressivi nei disturbi d’ansia
Negli anni passati si è osservato un progressivo passaggio dalla prescrizione di Benzodiazepine a quella di antidepressivi di seconda generazione, per i disturbi d’ansia.
In una recente sistematica rivisitazione della letteratura in materia, non è emerso un vantaggio sostanziale nell’utilizzare antidepressivi al posto di benzodiazepine per trattare i disturbi d’ansia. Anzi, le benzodiazepine mostravano una più bassa percentuale di abbandono del trattamento o di effetti collaterali. Nel disturbo di panico, con e senza agorafobia, il trattamento con benzodiazepine era più efficace di quello con antidepressivi nel ridurre il numero degli attacchi di panico. La maggiore spinta a passare dalle benzodiazepine agli antidepressivi nel trattamento dei disturbi d’ansia era il rischio di dipendenza con le benzodiazepine. Comunque, come precedentemente esaminato, a tempo debito dopo la loro introduzione simili se non più pronunciati problemi occorsero con molti dei più nuovi antidepressivi.

Reazioni immediate o ritardate dopo la sospensione possono insorgere nonostante lo scalaggio lento, con entrambe i tipi di farmaco. I vari tipi di benzodiazepina possono differire nei loro effetti collaterali: ansia di rimbalzo, sindromi da sospensione, e dipendenza appaiono essere più grandi con gli agenti a emivita di eliminazione breve-intermedia, di quelli con lunga emivita. I deficit di memoria appaiono essere proporzionali alla solubilità nei lipidi. Gli svantaggi associati all’uso di benzodiazepine tipo il Clonazepam, possono essere sensibilmente ridotti in comparazione con antidepressivi tipo la Paroxetina.
Inoltre, la tolleranza associata agli antidepressivi, può indurre una più alta vulnerabilità alla depressione in pazienti che prima non erano mai stati depressi cosi come a ipomania/mania, particolarmente nei soggetti più giovani.
Ci si dovrebbe preoccupare in particolar modo dei giovani pazienti che che cominciano ad assumere antidepressivi pe disturbi d’ansia e prolungano tale trattamento indefinitamente senza in sostegno di alcuna forma di psicoterapia. Quale sarà a lungo termine l’esito dei loro disturbi? Verrà sviluppata tolleranza e attivato un deterioramento (clinico) e una refrattarietà (al trattamento)?
Nell’ambito di un episodio depressivo maggiore che coesista con disturbi d’ansia, l’uso di antidepressivi può essere giustificato.  In tutti gli altri casi, il trattamento con antidepressivi dovrebbe essere considerato con cautela a meno che l’alternativa della psicoterapia non sia disponibile o efficace o le benzodiazepine non abbiano apportato un adeguato sollievo.  In una recente ricerca, 297 pazienti con fobia sociale furono trattati con Sertralina; la percentuale di remissione (13%) e risposta (32%) furono molto basse.
I “non rispondenti” (quelli che non avevano risposto alla sertralina sola) furono distribuiti in 3 gruppi casualmente composti: ad un gruppo fu somministrata Sertralina + Clonazepam; ad un gruppo fu sostituita la sertralina con Venlafaxina e al terzo gruppo fu data ancora Sertralina ma con un placebo associato, per poter valutare l’impatto dell’effetto “suggestione”.
L’aggiunta di Clonazepam diede un vantaggio significativamente maggiore delle altre due associazioni.
La conclusione degli a autori, supportata da un editoriale, era che il potenziamento col Clonazepam apporta benefici per i pazienti affetti da ansia sociale che non rispondono alla sola Sertralina.
Ciò che non fu discusso è l’evidente inappropiatezza della Sertralina come trattamento di prima linea dovuta alla sua molto bassa percentuale di risposta e remissione che è poco verosimili siano migliori di quelle (ottenibili) col (solo) placebo. Inoltre, una volta che è stata introdotta la Sertralina, un paziente è lasciato con una comorbilità di tipo jatrogeno che probabilmente avrà un effetto negativo sulla terapia cognitivo-comportamentale, come fu trovato in uno studio placebo-controllo.
Perché non trattare questi pazienti con Clonazepam soltanto fin dall’inizio? Questo deve essere testato in una ricerca controllata che compari Clonazepam, Sertralina e Placebo nel disturbo d’ansia sociale.

Conclusioni

Un uso razionale degli antidepressivi che incorpori tutti i potenziali benefici e danni consiste nel dirigere il loro utilizzo soltanto verso i più severi e persistenti casi di depressione, limitando il loro uso al tempo più breve possibile e riducendo il loro utilizzo nei disturbi d’ansia (a meno che non sia compresente all’ansia un disturbo depressivo maggiore oppure altri trattamenti siano risultati inefficaci).
Può sembrare che questi suggerimenti siano radicalmente differenti dalle correnti liee guida come quelle dell’Associazione Psichiatrica Americana, ma riflettono la ponderazione del rischio, la responsività e la vulnerabilità che dovrebbero essere applicate all’uso di antidepressivi in ogni singolo caso.

Un trattamento selezionato in accordo con la medicina basata sull’evidenza, si basa principalmente su studi clinici controllati-randomizzati e su meta-analisi (gli studi clinici controllati randomizzati sono studi sperimentali che permettono di valutare l’efficacia di uno specifico trattamento in una determinata popolazione; una metanalisi è una tecnica clinico-statistica quantitativa che permette di combinare i dati di più studi condotti su di uno stesso argomento, generando un unico dato conclusivo per rispondere a uno specifico quesito clinico).
Tuttavia, questa evidenza si applica al paziente medio e ignora il fatto che la classificazione (delle malattie mentali) consueta non include certi sintomi, la gravità della malattia, gli effetti di condizioni di comorbilità, la tempistica dei fenomeni, il tasso di progressione di una malattia, risposte a trattamenti precedenti e ad altre distinzioni cliniche che delimitano le principali differenze prognostiche e terapeutiche tra pazienti che altrimenti sembrano essere ingannevolmente simili poiché mostrano la stessa diagnosi. (E’ certamente vero che la classificazione standardizzata dei DSM tiene conto di alcuni sintomi statisticamente più presenti in certe malattie ma non tiene conto che ogni paziente ha la SUA malattia; mai come in psichiatria infatti, a parità di diagnosi, la terapia può cambiare moltissimo da un paziente all’altro per differenze anche lievi di sintomi, personalità, temperamento, ambiente, storia di precedenti trattamenti…Insomma, la mia personale opinione è che il tentativo di classificare le malattie mentali coi DSM sia un totale fallimento che lungi dall’aver facilitato diagnosi, terapia e prognosi delle malattie mentali, ha gettato solo confusione facendo commettere madornali errori diagnostici a psichiatri sprovveduti che usano il DSM come fosse una bibbia).

Tuttavia, questa evidenza (cioè questa psichiatria fatta utilizzando le regole della “medicina basata sull’evidenza” come si fa nella medicina del corpo) si applica al paziente medio e ignora il fatto che la classificazione consueta non include certi sintomi depressivi o la gravità della depressione stessa, l’eventuale esistenza di altre malattie concomitanti, la successione cronologica dei vari sintomi depressivi, la velocità con cui la depressione eventualmente si aggrava, la risposte ad eventuali trattamenti precedenti ed altri indicatori clinici che possono fare la differenza nella prognosi e nella terapia che altrimenti sembrano essere ingannevolmente simili poiché mostrano la stessa diagnosi. (Qui significa: se non si tiene conto delle suddette condizioni individuali, si rischia di curare tutti i depressi alla stessa maniera mentre solo l’attento studio di ogni singolo caso può far utilizzare la terapia giusta, evitando quindi l’errore gravissimo di applicare per ogni depresso l’equazione  depressione= antidepressivo, cosa che porta a prescrivere antidepressivi anche nelle depressioni moderate o lievi che sono la maggioranza e per le quali gli effetti collaterali a breve e a lungo termine superano di gran lunga i vantaggi).
In verità, le linee guida della American Psychiatric Association per il trattamento dei pazienti con disturbo depressivo maggiore stabilisce che “l’ultima parola riguardo al piano per particolari procedure cliniche o trattamenti deve essere lasciata allo psichiatra alla luce dei dati clinici, della valutazione psichiatrica e delle opzioni diagnostiche e di trattamento disponibili”.
Tali raccomandazioni dovrebbero comprendere le preferenze personali e socio-culturali e i valori i modo da migliorare  l’alleanza terapeutica, l’aderenza al trattamento, e i risultati del trattamento.

Gli antidepressivi furono sviluppati e sono efficaci per le depressioni severe, ma la tollerabilità migliore dei più nuovi antidepressivi ha ampliato le loro indicazioni originarie. Il loro uso è stato esteso al mantenimento e alla prevenzione delle ricadute nella depressione, e ed è stato esteso ai disturbi d’ansia.

Un nutrito corpo di studi randomizzati-controllati riguardante gli antidepressivi è disponibile ma c’è un pressante bisogno di ricerche che considerino i rischi, la responsività e la vulnerabilità (dei pazienti ai loro effetti collaterali).
Gli antidepressivi sono farmaci importanti e potenzialmente salvavita se sono rispettate le loro indicazioni specifiche. E invece abitualmente il medico che li prescrive è guidato da una sovrastima dei benefici potenziali, poca attenzione alla probabilità di efficacia e nessun interesse per le potenziali vulnerabilità del paziente agli effetti avversi.

Dichiarazione di trasparenza
L’autore non ha conflitti d’interesse da dichiarare

 

 

8 commenti

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  1. Dario
    Dario dice:

    Buon giorno Dottore, io soffrivo di attacchi di panico così violenti da impedirmi di andare a scuola o perseguire qualsiasi progetto (parliamo di 25 anni fa) . Mi furono prescritte prima paroxetina, poi vari altri SSRI, ma gli effetti collaterali sessuali e non solo erano veramente intollerabili. Al momento della sospensione andavo incontro ad una crisi depressiva da rimbalzo e sintomi fisici da astinenza così gravi che in alcuni casi è stato necessario un breve ricovero. Chiaramente superata la crisi mi reinserivano nuovamente un SSRI e il mio incubo continuava. Solo 3 anni fa, in totale autonomia, sostituendo la paroxetina con citalopram sono riuscito in circa 8 mesi a sospendere progressivamente e completamente l’antidepressivo. Mi sono però trovato con tutti i problemi d’ansia per cui il trattamento era cominciato 20 anni prima. Io ora ho trovato una sorta di “equilibrio” con il rivotril (6 gocce al giorno), che mi consente di lavorare e svolgere le minime attività sociali con discreta disinvoltura. Ammesso che questa vita non sarà mai semplice, e che mi sono rassegnato ad avere una dipendenza, perché so che senza rivotril sarei perso (non ho disponibilità economiche per la psicoterapia!), conviene con me che l’attuale “equilibrio” che tue riesco ad avere con 6 gocce di clonazepam sia preferibile ad una dipendenza da paroxetina & Co(anche per l’assenza totale di effetti collaterali da clonazepam ), o è la stessa cosa è io sto solo cercando di assolvermi?

    Gli antidepressivi mi terrorizzano, e io non posso più permettermi di finire in clinica per il rimbalzo che provocano…
    Grazie per l’attenzione
    Dario

    Rispondi
    • Angelo Mercuri
      Angelo Mercuri dice:

      Buongiorno, vedo moltissime persone che sono state iniziate dallo psichiatra agli antidepressivi per l’attacco di panico. Anche a 18 anni ; e poi si portano dietro una dipendenza che è di gran lunga più drammatica degli attacchi di panico. Prima avevano solo quelli, adesso, magari a 50 anni, hanno oltre agli attacchi di panico che son tornati, anche ansia, depressione e insonnia. Bisognerebbe tener presente che per gli attacchi di panico bisogna prima provare con le benzodiazepine ed in particolare sembra che Rivotril a basso dosaggio possa ridurre lo stato d’ansia cronico e spegnere gli attacchi. Gli antidepressivi DEVONO essere l’ultima spiaggia!
      Le invio link dove spiego meglio la cosa con un breve articolo: “Panico, attenti alla terapia!”

      Rispondi
  2. Dario
    Dario dice:

    Grazie della pronta risposta. Io, come molto altri, sono testimone diretto delle gravi conseguenze che provoca l’utilizzo di antidepressivi. È un rinviare il problema, che si ripresenterà più mordace, più difficile da trattare e spesso in comorbilità con altri disturbi fortemente invalidanti. Però perché le linee guida e il 99% degli psichiatri non lo ammettono e continuano a prescriverli a dosi sempre maggiori o in combinazione? Diventa sempre più difficile fidarsi di un professionista perché non è raro che ti conducano letteralmente in un inferno senza uscita. Uno dovrebbe essere un po’ farmacologo o comunque sempre aggiornato sugli studi “laterali” sui farmaci, cosa che ovviamente non è possibile. Sono molto rattristato e arrabbiato perché oggettivamente non esiste una via d’uscita e non ci si può affidare a nessuno senza correre gravi rischi. Quante volte in fase di sospensione di un SSRI, mentre la sintomatologia esplodeva con un intensità molto maggiore di quella di partenza e non riuscivo più a lavorare, a comunicare, nemmeno a piangere, gli psichiatri facevano un sorriso mentre riprescrivevano lo stesso farmaco, guardandomi come se fossero dei salvatori. Che rabbia nel dover riprendere un farmaco che sai che ti sta portando dentro una strada senza uscita e che ti rende impotente, solo per mitigare (poco), la sintomatologia di rimbalzo. È estenuante.

    Mi scuso per essere prolisso, ma chiudo chiedendole una cosa. Ho letto l’articolo sugli attacchi di panico. No antidepressivi, sicuramente meglio basse dosi di benzodiazepine. Però in molti articoli che lei stesso ha scritto si sottolinea la grave dipendenza che queste fanno insorgere e quanto sia dura poterle sospendere. Ma allora si può dire che la psichiatria abbia fallito completamente? Che non ci sia una soluzione per questi tipi di disturbi? Io mi salvo con 6 gt di Rivotril al giorno, cje trovo molto più tollerabile e gestibile di un SSRI o simili, ma senza starei malissimo e so che seppur basso il dosaggio, ne sono dipendente. Alla fine è solo un male minore ma la cura (intesa come processo terapeutico) non esiste se uno non può permettersi uno psicoterapeuta (come me). E questo è un po’ come essere abbandonati.
    Le porgo Cordiali saluti.

    Rispondi
    • Angelo Mercuri
      Angelo Mercuri dice:

      Buongiorno, ho letto e in parte concordo. Io non sono contrario agli antidepressivi in assoluto, ci sono casi di depressione molto grave in cui sono necessari. Sono contro l’uso scorretto che se ne fa prescrivendoli anche per disturbi leggeri. Quanto agli attacchi di panico, anche li non sono contrario agli antidepressivi ma dico che prima bisogna provare con una benzodiazepina a basso dosaggio perchè potrebbe anche spegnere l’ansia anticipatoria e rompere in modo permanente il circolo vizioso alimentato dalla paura.

      Rispondi
  3. Alessio
    Alessio dice:

    Salve Dottore! Ho letto molto dei suoi articoli e condivido tutto.
    Soffro di depressione dal 2016. Il mio è un calvario che si trascina da allora.
    Diagnosi: depressione maggiore.
    Ho assunto di tutto. Dalla Paroxetina, allo Zoloft, dallo Zarelis al Cipralex, al Brintellix. Sfortunatamente ho risolto il problema solo in parte perché, appena mollo i farmaci (gli antidepressivi dopo un po’ vanno sospesi e questo lo dicono anche molti pschiatri), vengo travolto da un forte effetto rebound e il circo ricomincia. Nuova assunzione di antidepressivo, periodo di risoluzione dei sintomi, sospensione e ricaduta; che poi non credo sia una ricaduta ma un effetto da rimbalzo. L’organismo ormai assuefatto all’antidepressivo, tende a voler ritornare allo stato precedente la cura e tornano i sintomi peggiorati dalla sospensione. E’ un continuo attacca e stacca dei farmaci, non ne posso più. Ora ho interrotto il Brintellix da un mese e mezzo e sto vedendo i sorci verdi con una miriade di sintomi. Passo le giornate a letto a causa di stanchezza cronica e forte senso di apatia. Sto davvero facendo fatica a rimettermi in piedi e spero di rialzarmi al più presto.
    L’ultima volta la fase 1 era durata circa un paio di mesi e poi ero tornato in equilibrio.
    Quello che non capisco è questo: ho assunto il Brintellix a dosaggio di 20, poi 0, poi 5 e infine 1 mg, prima di sospenderlo. Da quando ho iniziato ad assumerlo al massimo dosaggio sino a 1 solo mg al gg, non ho avvertito alcuna differenza, ma quando ho levato quel mg sono iniziati i veri sintomi da sospensione. Com’è possibile questo? Grazie.

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    • Angelo Mercuri
      Angelo Mercuri dice:

      Buongiorno, tanti notano questo ma è una coincidenza, semplicemente per tornare a stare male dopo la sospensione di un antidepressivo ci vuole da 1 a 3 mesi e l’ultima goccia non c’entra nulla, semplicemente è passato il tempo e l’astinenza è tornata.

      Rispondi
      • Alessio
        Alessio dice:

        Quindi il mio malessere (destabilizzazione emotiva, apatia, calo delle energie) sono determinati dall’astinenza dall’antidepressivo che deve essere smaltito, o cosa?
        Può essere più specifico, grazie!

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        • Angelo Mercuri
          Angelo Mercuri dice:

          Probabilmente è il ritorno di quanto aveva prima di cominciare le cure psichiatriche aggravato dall’astinenza da antidepressivi. Dippiù ovviamente non posso dirle senza conoscerla direttamente almeno tramite videochiamata.

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