Depressione

La depressione è un disturbo dell’umore caratterizzato da un insieme di sintomi cognitivi, comportamentali, somatici ed affettivi che, nel loro insieme, sono in grado di diminuire in maniera da lieve a grave il tono dell’umore, compromettendo il “funzionamento” di una persona, nonché le sue abilità ad adattarsi alla vita sociale.

La depressione non è quindi, come spesso ritenuto, un semplice abbassamento dell’umore, ma un insieme di sintomi più o meno complessi che alterano anche in maniera consistente il modo in cui una persona ragiona, pensa e raffigura se stessa, gli altri e il mondo esterno. La depressione talvolta è associata ad ideazioni di tipo suicida o autolesionista, e quasi sempre si accompagna a deficit dell’attenzione e della concentrazione, insonnia o ipersonnia, disturbi alimentari, estrema ed immotivata prostrazione fisica. La depressione fa parte dei disturbi dell’umore, insieme ad altre patologie come la mania e il disturbo bipolare. Essa può assumere la forma di un singolo episodio transitorio (si parlerà quindi di episodio depressivo) oppure di un vero e proprio disturbo (si parlerà quindi di disturbo depressivo). L’episodio o il disturbo depressivo sono a loro volta caratterizzati da una maggiore o minore gravità. Quando i sintomi sono tali da compromettere l’adattamento sociale si parlerà di disturbo depressivo maggiore, in modo da distinguerlo da depressioni minori che non hanno gravi conseguenze e spesso sono normali reazioni ad eventi luttuosi. L’episodio depressivo maggiore è caratterizzato da sintomi che durano almeno due settimane causando una compromissione significativa del funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti. Fra i principali sintomi si segnalano:

  1. Umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno.
  2. Marcata diminuzione di interesse o piacere per tutte, o quasi tutte, le attività per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno (anedonia).
  3. Significativa perdita di peso, in assenza di una dieta, o significativo aumento di peso, oppure diminuzione o aumento dell’appetito quasi ogni giorno.
  4. Insonnia o ipersonnia quasi ogni giorno.
  5. Agitazione o rallentamento psicomotorio quasi ogni giorno.
  6. Affaticabilità o mancanza di energia quasi ogni giorno.
  7. Sentimenti di autosvalutazione oppure sentimenti eccessivi o inappropriati di colpa quasi ogni giorno.
  8. Diminuzione della capacità di pensare o concentrarsi, o difficoltà a prendere decisioni, quasi ogni giorno.
  9. Ricorrenti pensieri di morte, ricorrente ideazione suicida senza elaborazione di piani specifici, oppure un tentativo di suicidio o l’elaborazione di un piano specifico per commettere suicidio.

Per parlare di episodio depressivo maggiore è necessaria la presenza di almeno cinque dei sintomi sopra elencati. Nella maggior parte dei casi, però, la depressione si configura come disturbo depressivo maggiore, cioè un decorso clinico caratterizzato da più episodi depressivi maggiori; nel 50-60% dei casi, infatti, un episodio depressivo maggiore sarà seguito da un ulteriore episodio depressivo, portando quindi alla formazione di un disturbo depressivo.

Oltre alla depressione esistono altri disturbi dell’umore di tipo depressivo. Fra i principali:

  • distimia (o disturbo distimico): presenza di umore cronicamente depresso, per un periodo di almeno due anni. In questo caso i sintomi depressivi, nonostante la loro cronicità, sono meno gravi e non si perviene mai a un episodio depressivo maggiore.
  • disturbo dell’adattamento con umore depresso: è conseguenza di uno o più fattori stressanti e si manifesta in genere entro tre mesi dall’inizio dell’evento con grave disagio psicologico e compromissione sociale. Solitamente eliminato il fattore di stress, tale depressione scompare entro 6 mesi.
  • depressione secondaria: depressione dovuta a malattie psichiatriche e non, o a farmaci. Spesso, infatti, alcune malattie mostrano come primi sintomi variazioni del tono dell’umore, fra le quali: sclerosi multipla, morbo di Parkinson, tumore cerebrale, morbo di Cushing, lupus eritematoso sistemico.
  • depressione reattiva: depressione dovuta ad un evento scatenante come un lutto, una separazione, un fallimento, i cui sintomi, però, si dimostrano eccessivamente intensi e prolungati rispetto alla causa scatenante. Al suo interno si possono collocare i disturbi dell’adattamento e le reazioni da lutto.
  • depressione mascherata: depressione che si manifesta principalmente con sintomi cognitivi, somatici o comportamentali, a dispetto di quelli affettivi. In realtà vengono semplicemente amplificati aspetti non affettivi della depressione.

Infine, fra gli altri disturbi dell’umore che includono sintomi depressivi, si possono citare la disforia (un’alterazione dell’umore con caratteristiche depressive contrassegnate da agitazione e irritabilità) e i disturbi bipolari, ossia quelle patologie dove vi è alternanza di episodi depressivi maggiori o minori con episodi maniacali o ipomaniacali.

La classificazione non si riduce semplicemente a queste poche categorie, in quanto esistono varie sottocategorie per i tipi elencati, oppure depressioni tipiche di alcuni eventi particolari, come ad esempio la depressione post-partum.

La depressione è la prima causa di disfunzionalità nei soggetti tra i 14 e i 44 anni di età, precedendo patologie quali le malattie cardiovascolari e le neoplasie. La depressione e la distimia sono maggiormente presenti nelle donne in un rapporto di 2 a 1 rispetto agli uomini, ma solo dopo l’età puberale. Il tasso di prevalenza del disturbo depressivo maggiore in età prescolare è attorno allo 0,3%; valore che tende a salire con l’età, arrivando al 2-3% in età scolare e al 6-8% in età adolescenziale. Secondo il DSM IV la prevalenza del disturbo depressivo maggiore in età adulta è del 10-25% nelle donne e del 5-12% negli uomini, mentre quella del disturbo distimico è nel complesso del 6%. La probabilità di avere un episodio depressivo maggiore entro i 70 anni è del 27% negli uomini e del 45% nelle donne; cifre che dimostrano in modo chiaro l’ampia diffusione di questa patologia. Inoltre dal 1940, nei paesi industrializzati, tende costantemente ad aumentare la prevalenza di tale disturbo e ad abbassarsi l’età media d’insorgenza.

Molti studi dimostrano anche una sostanziale continuità della depressione lungo l’intero arco di vita; infatti circa l’80% dei bambini con disturbo depressivo tende a presentare la stessa patologia anche in età adulta, oltre al fatto che un disturbo depressivo precoce possa rappresentare un fattore di rischio per la comparsa di patologie come il disturbo bipolare o l’abuso di sostanze.

Secondo ricerche epidemiologiche recenti, l’incidenza di stati depressivi è correlata anche con l’eventuale presenza di allergie alimentari o intolleranze come la celiachia.

Le cause che portano alla depressione sono ancora oggi poco chiare. Inizialmente vi erano due correnti opposte di pensiero, una che attribuiva maggiore importanza alle cause biologiche, l’altra a quelle psicologiche. Oggi i dati disponibili suggeriscono che la depressione sia una combinazione di fattori genetici, ambientali e psicologici.

Gli studi sui gemelli monozigoti e dizigoti e sui soggetti adottati hanno dimostrato una certa ereditabilità dei disturbi depressivi, anche se in modo meno consistente rispetto al disturbo bipolare. Il tasso di ereditabilità per i sintomi depressivi si attesta attorno al 76%. La depressione, quindi, come molte altre malattie psichiatriche, non segue un modello di trasmissione diretta, bensì un modello dove sono coinvolti più geni. L’ereditarietà è comunque meno probabile per le forme di depressione lievi, mentre sembra incidere più fortemente nelle depressioni ad esordio precoce: il 70% dei bambini depressi hanno, infatti, almeno un genitore che presenta un disturbo dell’umore. Questo dato può essere dovuto in parte anche al fatto che un genitore depresso instaura una relazione non favorevole con il proprio figlio, già geneticamente vulnerabile, che aumenta la probabilità, per il bambino, di sviluppare un disturbo dell’umore. L’influenza genetica nella depressione si evidenzia anche in altre ricerche: figli di genitori biologici depressi, ma cresciuti in famiglie adottive dove non sono presenti genitori depressi, dimostrano una probabilità 8 volte maggiore di sviluppare la depressione, rispetto a figli di genitori biologici non depressi.

Una delle prime indicazioni che la depressione avesse anche delle basi biologiche si ebbe negli anni cinquanta. Durante quel periodo venne introdotto un farmaco, la reserpina, utilizzato per controllare la pressione sanguigna, che però aveva ingenti effetti collaterali, tra cui l’insorgenza di una depressione nel 20% dei pazienti. Tale farmaco diminuiva la quantità di due neurotrasmettitori appartenenti alla famiglia delle monoammine: la serotonina e la noradrenalina. In seguito fu scoperto che un altro farmaco, utilizzato per curare la tubercolosi (l’isoniazide), provocava un miglioramento dell’umore. Questo farmaco, al contrario della reserpina, inibiva la monoaminossidasi, cioè quell’enzima che elimina la noradrenalina e la serotonina, provocando cioè un aumento di tali neurotrasmettitori. Era quindi chiaro come la depressione, e l’umore in generale, fossero legati ai livelli dei neurotrasmettitori monoaminici. Nacque così l’idea, definita ipotesi monoaminica dei disturbi dell’umore o ipotesi delle ammine biogene, che la depressione fosse una conseguenza di uno squilibrio di alcuni neurotrasmettitori. In realtà questa era una spiegazione troppo semplicistica e, infatti, non è possibile stabilire una relazione diretta tra umore e uno specifico neurotrasmettitore. Altri fattori neurobiologici rivestono un ruolo fondamentale nell’eziologia dei disturbi dell’umore e di particolare importanza risulta essere l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, cioè l’asse ormonale che mette in comunicazione le strutture limbiche, l’ipotalamo, e l’ipofisi, con il surrene. Questo asse regola la risposta a lungo termine allo stress, inducendo il surrene al rilascio di ormoni glucocorticoidi, in particolare il cortisolo. Nei pazienti depressi si è riscontrata una iperattività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e, di conseguenza, elevati dosi di cortisolo nel sangue. Elevati livelli di cortisolo provocano effetti dannosi per tutto l’organismo, tra cui: insonnia, diminuzione dell’appetito, diabete mellito, osteoporosi, diminuzione dell’interesse sessuale, aumento dell’espressione comportamentale dell’ansia, immunosoppressione, danni a vasi cerebrali e cardiaci.

Quando è esclusa una componente di natura psicologica (conscia o inconscia) la depressione appare quindi come un’incapacità dell’encefalo di reagire di fronte a un cambiamento di vita o più in generale ad una qualsiasi fonte di stress oltre i limiti di tolleranza tipici del soggetto. La minor o maggior risposta allo stress da parte dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene in un individuo sarebbe dovuta a influenze genetiche ed ambientali. Secondo questa ipotesi, detta ipotesi della diatesi da stress, i disturbi dell’umore (così come altri disturbi mentali) avrebbero dunque una causa prima su base biologica (ad es. ipersensibilità) ed ereditaria con i geni che ci predisporrebbero quindi a questo tipo di malattia a sua volta innescata, sui tali soggetti predisposti, da cause scatenanti o concause di tipo ambientale e psicologico-traumatiche come appunto eccessive dosi di stress cioè sotto forma di una risposta prolungata di disadattamento dell’individuo alla causa scatenante. I vari studi effettuati hanno infatti confermato che eventi stressanti, soprattutto se prolungati, sono in grado di ridurre il tasso di alcuni neurotrasmettitori come la serotonina e la noradrenalina e di iperattivare l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene con conseguente aumento del cortisolo nel sangue. Questo però è evidente soprattutto in soggetti adulti depressi, mentre nei bambini tale associazione non è confermata, visto che nella popolazione di bambini depressi il livello di cortisolo nel sangue sembra essere nella norma.

È quindi chiaro come la depressione sia una malattia complessa, dovuta a più cause e legata a una complessa rete di sistemi neurali. Ad esempio ulteriori studi hanno evidenziato anche una compromissione metabolica che include la corteccia paralimbica prefrontale orbitofrontale, il giro cingolato anteriore e la corteccia temporale anteriore, i gangli della base, l’amigdalae il talamo. L’utilizzo di tecniche di neuroimaging ha inoltre rivelato una riduzione della grandezza dei lobi frontali e dei lobi temporali. Quindi non solo modificazioni dei sistemi neurochimici, ma anche di quelli neuroanatomici.

L’ereditarietà dei disturbi depressivi è un fattore molto importante a determinare l’insorgere della malattia, ma un ruolo chiave sembra svolto anche dai fattori ambientali. Ricerche hanno dimostrato che c’è interazione fra ambiente e fattori genetici, la depressione in età adulta è strettamente correlata con esperienze di vita negative: la malattia, infatti, si può innescare dopo alcune fasi importanti della vita: un lutto, un licenziamento, un grande dispiacere ma anche un abbandono della persona amata, perfino una grossa vincita; in generale qualsiasi cambiamento rilevante può indurre la manifestazione del disturbo in soggetti predisposti alla malattia stessa. Si è notato, ad esempio, che l’abuso e l’abbandono durante l’infanzia sono fattori di forte rischio per lo sviluppo dei disturbi dell’umore, proprio perché il forte stress produce influenze non solo psicologiche, ma anche fisiche e biologiche (in particolare sull’asse ipotalamo-ipofisi-surrene). Sempre restando in tema di depressione generata da fattori esterni si può citare la depressione negli anziani: in questo caso c’è una difficoltà ad accettare il decadimento fisico e psicologico come fenomeni naturali, anzi si tende a vederli come un abuso, un’ingiustizia. Oppure chi è vittima effettivamente di un abuso che non viene riconosciuto come tale può cadere in depressione.

Vi sono ancora alcune correnti di pensiero che vedono la depressione collegata soltanto a fattori interni di tipo psicologico, si tratta in particolare di correnti psicoanalitiche, per le quali la causa della depressione è da ricercarsi in fattori inconsci. Ad esempio, la depressione endogena è spiegata, dal punto di vista psicoanalitico di alcuni Autori, come il risultato di una mancata elaborazione di vissuti emotivi profondi, verosimilmente traumatici, depositatesi nell’inconscio a causa di processi difensivi come ad esempio la rimozione; o anche, secondo altri, con la persistenza strutturata nel tempo di un Super-io persecutorio. Nel 1945, René Árpád Spitz (uno psicanalista americano di origine ungherese) evidenziò una forma di depressione nei bambini orfani, precocemente ospedalizzati, che chiamò “depressione anaclitica” (dal greco stendersi, appoggiarsi sopra). Secondo le osservazioni di Spitz, la sindrome segue invariabilmente una sequela tipica di fasi:

primo mese: fase di protesta, in questo primo periodo il bambino appare angosciato, piange frequentemente e ricerca il contatto con la madre o con la precedente figura di maternage;

secondo mese: fase di disperazione, il pianto diventa più concitato ed è accompagnato da grida e rifiuto del cibo, con conseguente calo ponderale;

terzo mese: fase del rifiuto, il bambino sembra perdere interesse per le persone e l’ambiente che lo circonda, rimane sempre più tempo disteso a letto o rannicchiato in posizione fetale;

dal terzo mese in poi: fase del distacco, il bambino appare triste e distaccato dall’ambiente circostante, il viso è inespressivo e senza pianto.

Se la situazione di separazione si protrae ulteriormente, il bambino acquisirà una forma sempre più marcata di disturbo depressivo, se invece vi sarà, almeno entro il quinto-sesto mese, una ricongiunzione con una figura stabile di accudimento, si potrà verificare una celere ripresa dello sviluppo ponderale e psicomotorio, e una rapida riacquisizione del contatto con l’ambiente circostante.

La terapia d’elezione nei trattamenti somatici è a base di psicofarmaci, ma non è l’unica. Gli psicofarmaci hanno il compito di normalizzare l’equilibrio alterato dei neurotrasmettitori. Come detto, infatti, i principali neurotrasmettitori implicati nella malattia depressiva sono stati identificati in serotonina, noradrenalina e dopamina e, secondo i fautori della matrice biologica della malattia, sembra esservi una corrispondenza accertata fra depressione e insufficiente disponibilità di uno o più di questi tre neurotrasmettitori. I farmaci per curare la depressione vengono detti antidepressivi e in generale si possono dividere in tre grandi categorie:

gli antidepressivi triciclici (ATC)

gli antidepressivi inibitori delle monoamino ossidasi (I-MAO)

gli antidepressivi a struttura non triciclica o di seconda generazione

I primi ad essere usati, a partire dagli anni Cinquanta, sono stati gli antidepressivi triciclici, che hanno mostrato chiaramente la loro efficacia. Essi vanno ad influire sui livelli di serotonina e noradrenalina e hanno un’attività anti-colinergica. Questo tipo di antidepressivi hanno un’efficacia del 70% rispetto ad un placebo.[36] Tuttavia questi antidepressivi hanno alcuni effetti collaterali non del tutto trascurabili (legati soprattutto all’azione anticolinergica) fra i quali: tachicardia, aritmie, arresto cardiaco (per questo sconsigliati a pazienti che soffrono di malattie cardiache) secchezza delle fauci, stipsi, ritenzione urinaria, offuscamento della vista, talora ansia o confusione mentale, disturbi della memoria, astenia, alterazioni ECG, e più raramente aumento di peso, alterazioni ematochimiche, ittero epato-cellulare o colostatico, eiaculazione ritardata nell’uomo, reazioni cutanee. L’altra categoria di antidepressivi, i cosiddetti anti-MAO, agiscono come inibitori della monoaminossidasi (da cui la sigla), enzima che metabolizza serotonina e catecolamine (adrenalina, noradrenalina e dopamina). Gli IMAOcomportano pertanto un aumento della concentrazione di questi neurotrasmettitori nel sistema nervoso centrale. Non presentano un’efficacia maggiore o particolari “vantaggi” rispetto agli antidepressivi triciclici, mentre hanno alcuni effetti collaterali maggiori rispetto ad essi. Fra gli effetti collaterali si riscontra: eccitamento, insonnia, tremori, allucinazioni, ipotensione, sudorazione ridotta, ritardo dell’eiaculazione, ritenzione urinaria, reazioni cutanee, aumento di peso. In alcuni casi gravi gli I-MAO possono causare crisi ipertensive con emorragia cerebrale anche fatale, preceduta da forti mal di testa, vomito, dolore toracico. Inoltre producono effetti tossici in interazione con sostanze contenti elevate dosi di tiramina (formaggi, alcuni vini e birre, fegato, trippa, aringhe, fagioli, banane, fave, fichi). Antidepressivi triciclici e I-MAO sono stati per decenni le uniche opzioni farmacologiche, mentre ora il loro uso è diminuito soprattutto a causa della creazione di farmaci con minori effetti collaterali, i cosiddetti antidepressivi di seconda generazione.

Gli antidepressivi di nuova generazione sono divisi in cinque gruppi:

Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) che comprende Fluoxetina, Fluvoxamina, Paroxetina, Sertralina, Citalopram ed Escitalopram.

Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina e della noradrenalina (NSRI o SNRI), rappresentati principalmente dalla Venlafaxina e dalla Duloxetina.

Antidepressivi serotoninergici specifici e noradrenergici (NaSSA), che hanno il loro capostipite nella Mirtazapina.

Inibitori selettivi della ricaptazione della noradrenalina (NaRI) che hanno il loro capostipite nella Reboxetina

A marzo 2008 in Italia è stato ammesso in commercio il Bupropione antidepressivo che appartiene al gruppo degli NDRI (inibitori della ricaptazione della noradrenalina e della dopamina).

Nel settembre 2010 è entrato in commercio una molecola antidepressiva di nuova categoria, simile alla melatonina, che agisce come agonista della melatonina e antagonista della serotonina disinibendo così la trasmissione noradrenergica e dopaminergica: Agomelatina.

Questi antidepressivi sono più specifici e quindi i loro effetti collaterali sono leggermente ridotti, anche se sovrapponibili a quelli degli antidepressivi triciclici e degli inibitori delle monoaminoassidi. Le terapie con farmaci antidepressivi devono essere assunte per un tempo variabile dalle 2 alle 4-6 settimane prima di ottenere un effetto antidepressivo (latenza rispetto alla efficacia antidepressiva). Secondo alcuni studi clinici questo tempo di latenza è più breve per gli antidepressivi nuovi. È indispensabile che il paziente e i familiari siano al corrente di questo tempo di latenza, dato che potrebbero essere indotti a sospendere le terapie ritenendole inefficaci. Dal 2005 in paesi quali gli Stati Uniti o la Gran Bretagna, i rispettivi ministeri della salute hanno imposto ai produttori di esporre in grande evidenza (“black box warning”) il rischio di commettere suicidio, che in alcuni soggetti predisposti (in particolare quelli più giovani) sembrerebbe aumentare, in particolare durante le prime settimane della terapia; durante questa fase iniziale, viene quindi raccomandato ai medici di seguire attentamente i pazienti. L’unico prodotto naturale con dimostrate proprietà antidepressive è l’Iperico (noto anche come Erba di S. Giovanni). In funzione antidepressiva vengono utilizzati con buoni risultati anche stabilizzanti dell’umore, come i sali di litio e alcuni anticonvulsionanti, gli agonisti della dopamina come il pramipexolo, i farmaci utilizzati per curare l’ipotiroidismo come la Triiodotironina, gli stimolanti come il modafinil e altri farmaci non classificati come antidepressivi. L’acido folico ha nella terapia della depressione un ruolo confermato da recente ed autorevole letteratura scientifica. L’acido folico, infatti è noto, essere fondamentale per la sintesi dei principali neurotrasmettitori: Noradrenalina, Serotonina e Dopamina, che sono carenti in corso di depressione. La carenza di Acido folico è associata con le manifestazioni della depressione, specie quella caratterizzata da deficit cognitivi. L’uso dell’Acido Folico secondo diversi autori può trovare un vantaggioso utilizzo nei casi di: sintomi iniziali, in caso di remissione parziale, in pazienti con sintomatologia residua, o come terapia di potenziamento insieme alle terapie farmacologiche a base di antidepressivi.

Esistono altri trattamenti somatici che possono essere utilizzati per curare la depressione, come la terapia elettroconvulsiva, la fototerapia e la deprivazione di sonno. Si tratta di terapie molto discusse e contestate, o comunque, ancora sperimentali e non provate scientificamente. Nei casi di farmacoresistenza o di impossibilità a somministrare antidepressivi di sorta, un modello di trattamento discusso è rappresentato dalla terapia elettroconvulsiva (elettroshock). Secondo qualcuno è efficace, nel caso delle forme più gravi del disturbo, ma non tiene affatto conto dei fattori secondari e della soggettività del paziente di un trattamento così traumatico. Tuttavia l’elettroshock risulta ancora oggi lo strumento terapeutico più efficace con oltre l’85% di successi terapeutici in termini di remissione. Il problema dell’ECT risulta essere quello relativo alla non prevenzione delle ricadute, che dopo questo genere di terapia sembrano essere frequenti. In più, occorre notare l’effetto iatrogeno dell’elettroshock: danni a carico della memoria, talvolta irreversibili.

Per molto tempo si è ritenuto che gli interventi psicologici sulla depressione avessero una scarsa o nulla efficacia. Oggi, invece, è ampiamente dimostrato che esistono varie terapie efficaci nel contrastare la depressione, in particolare la terapia cognitivo-comportamentale. Vari autori hanno dimostrato, anche attraverso meta-analisi, che la terapia cognitivo-comportamentale risulta efficace sia nel ridurre i sintomi depressivi, sia nel mantenere nel tempo i risultati. Il vero vantaggio della terapia cognitivo-comportamentale, rispetto all’uso di psicofarmaci, sta soprattutto nella diminuzione delle ricadute: gli psicofarmaci agiscono sui sintomi, ma da soli non sono in grado di modificare le cause che innescano la depressione se queste hanno in realtà natura psicologica o ambientale. 

Approvato nel 2009 dall’EMEA, nel 2010 è entrato in commercio l’agomelatina, principio attivo con una struttura simile alla melatonina che propone un nuovo approccio alla cura della malattia agendo da agonista sui recettori della melatonina e da antagonista sui recettori della serotonina; io sinceramente credo esistano antidepressivi più collaudati ed efficaci.

La Food and Drug Administration nel 2005 ha approvato la stimolazione cerebrale profonda (DBS) come terapia per quei soggetti che non hanno risposto almeno a tre cicli di farmaci. Si tratta di elettrodi impiantati che fanno fluire una continua ma impercettibile scossa al cervello favorendo una maggiore concentrazione dei neurotrasmettitori deficitari. In Italia tale metodologia non è attualmente in uso per la depressione, se non per alcuni casi specifici sperimentali, mentre è usata per curare alcuni casi di parkinsonismo e cefalea a grappolo. Tuttavia in casi del tutto speciali ai depressi “non responder” viene praticata la stimolazione chirurgica del nervo vago, attraverso cui passano i neurotrasmettitori la cui deficienza porta a disturbo depressivo. Un’altra terapia sperimentale ma non ancora approvata, è lo shock magnetico (simile all’elettroshock ma la convulsione viene provocata da campi magnetici e non campi elettrici, con minori effetti collaterali).

Un altro filone di ricerca clinica è relativo alla cosiddetta “cronoterapia”. Infatti, recenti studi hanno dimostrato che la depressione, ed in particolare quella stagionale e quella bipolare, sarebbe correlata ad un significativo sfasamento del ritmo sonno-veglia. Per tale motivo si sono sperimentate terapie come la “Dark Therapy” o la “terapia della luce”, che mirano a regolarizzare il ritmo sonno-veglia. Recentemente, sarebbe stato dimostrato un importante effetto antimaniacale della “Dark therapy”, ed un effetto antidepressivo della “terapia della luce”