Abbondanza e continenza

L’abbondanza continua di cibo è una condizione molto recente (una cinquantina d’anni) che l’essere umano non è geneticamente nè psicologicamente preparato ad affrontare. Per decine di migliaia di anni infatti l’uomo ha dovuto convivere con un’alternanza di periodi di abbondanza e periodi di scarsità di cibo ed è su questa condizione che si è plasmato il suo corpo e la sua mente: mangiare più possibile fin che ce n’era e immagazzinare le sostanze nutritive sotto forma di grasso per sopravvivere più a lungo nel periodo di scarsità. Oggi nella società occidentale l’eccesso di cibo e soprattutto la sua presenza continua tutto l’anno e tutti gli anni è diventato un problema perché l’essere umano tende a reiterare quel comportamento di approvvigionamento, di accaparramento sù descritto e lo fa in modo automatico, compulsivo lasciandosi travolgere dalla forza di un istinto. Per questo una delle conquiste culturali e comportamentali nuove (e difficili) è capire come funziona il meccanismo e imparare a trattenersi: per la prima volta nella nostra storia dobbiamo imparare a difenderci dal troppo.

L’autodisciplina però non riguarda soltanto il cibo: noi occidentali viviamo ormai nel troppo di tutto: sesso, divertimento, riposo fisico (sotto forma di sedentarietà), occasioni di festa, informazione, immagini, viaggi, medicine. Questo capita perché nell’ultimo secolo circa l’uomo occidentale è riuscito ad ottenere tutto ciò che gli è sempre mancato; ecco allora la nuova difficoltà: applicare la continenza di fronte a ciò che saremmo predisposti d’istinto a  divorare perché atavicamente scarso e quindi prezioso.

Il problema fondamentale non sta tanto nella quantità di risorse a nostra disposizione ma piuttosto nella modalità continua, rapida e facile con cui oggi possiamo accedervi rispetto a quella ancestrale, faticosa, incerta, e contrassegnata dall’alternarsi di abbondanza e scarsità: l’esempio più esplicativo è quello dell’uomo moderno che si procura il cibo recandosi al supermercato rispetto ai suoi antenati che dovevano andare a caccia con fatica ed esiti incerti oppure, nel caso degli stanziali dediti all’agricoltura dipendeva da fattori climatici e atmosferici imprevedibili. Per i nostri antenati digiunare non era uno sforzo, era semplicemente una necessità. Ecco dunque che per noi deve nascere la cultura della continenza, l’etica della morigeratezza che significa sapersi trattenere per conservare la salute ma anche per conservare intatti gli appetiti e con essi la spinta vitale. L’attuale modalità continua di erogazione dei piaceri è infatti il modo migliore per assuefarvisi perdendo ogni fonte di gratificazione mentre l’antica modalità intermittente e incerta  non consentiva mai l’abituazione lasciando intatto il piacere, che sta tutto nei contrasti tra avere e non avere, tra dolore e sollievo, tra fame e sazietà, tra malattia e guarigione, tra tristezza e gioia, tra solitudine e compagnia, tra freddo e tepore. Lo sbaglio che molte persone fanno è di credere che l’essere morigerati sia un estenuante e frustrante esercizio di volontà fine a se stesso oppure utile solo a chi crede in una ricompensa ultraterrena: costoro non vedono che una vita di moderazione, lasciando intatti gli appetiti, la salute e l’autostima è fonte di felicità : chi sa essere frugale è più felice perché entra in armonia col proprio sé arcaico.

A. Mercuri