Dostoevskij, Memorie di una casa morta (1861)

A mio parere uno dei più bei libri di Fёdor Dostoevskij (1821-1861), e’ il resoconto della prigionia di quattro anni (1850-1854) che l’autore subì sotto forma di lavori forzati in Siberia.
Era stato precedentemente arrestato (22 dicembre 1849) e condannato a morte dallo Zar per aver fatto parte di un gruppo socialista, pena poi sospesa quando aveva già i fucili puntati contro: l’ordine di tramutare la pena di morte in lavori forzati era già stato diramato dallo Zar prima che i detenuti venissero schierati per l’esecuzione, ma un sadico comandante aveva ugualmente inscenato una finta fucilazione.
Dopo tale drammatica esperienza, le crisi epilettiche di Dostoevskij si intensificarono; seguirono, subito dopo, i lavori forzati: entrambe queste esperienze lo cambiarono profondamente. Si può supporre che per capire Dostoevskij e la sua celebre propensione a scandagliare l’anima umana sofferente, sia fondamentale conoscere tali dati biografici.
Le presenti “Memorie di una casa morta” sono un documentario splendido sui campi di prigionia zaristi ma non si pensi ad una cronaca stile “Arcipelago Gulag” di Solženicyn: in Dostoevskij l’attenzione non è rivolta alla descrizione di luoghi e modi, non vi è nemmeno critica o giudizio riguardo alle brutali condizioni dei detenuti: tutta l’attenzione dell’autore si aggira sul piano più elevato dello studio di caratteri, personalità, reazioni psicologiche e comportamenti dei detenuti, al loro tipico gergo, mentalità, scala di valori, forza bruta o raffinatezza psicologica. Il tutto osservato e descritto sul filo della fascinosa attrazione per la forza, la spontaneità, il vigore, la tempra, la capacità di sopportare e accettare la sorte, doti e doni di un popolo russo che Dostoevskij tanto amava.
A. Mercuri