Perchè detesto la globalizzazione

Io, anche come psicoterapeuta, sono convinto che la strada giusta per tornare a vivere in modo più naturale e quindi più felice, sia rilocalizzare, all’opposto cioè del globalizzare.

L’essere umano infatti ha da sempre avuto un proprio territorio limitato in cui vivere, in modo assoluto almeno da 13 mila anni a questa parte (da quando cioè è diventato stanziale); ma anche prima viveva in un territorio limitato, quando era nomade e si occupava di caccia  e raccolta, perchè si spostava spesso, si, ma il territorio che esplorava era limitato nello spazio e veniva percorso a piedi, o con modalità lente di spostamento. Anche quando era nomade, lo era in modo totalmente diverso da noi nomadi coatti di oggi con una forsennata e spesso insensata necessità di cambiare luogo correndo come disperati in una puzzolente scatola a quattro ruote. Allora, la mentalità e lo stile di vita erano estremamente frugali, non si aveva il senso del possesso, dove si arrivava per un po’ di tempo ci si fermava.

E così, vivendo per millenni un proprio ambiente geograficamente limitato, si sono formate le razze, cioè uomini di aspetto e mentalità assai differente tra loro perché evolutisi in contesi climatici e geografici limitati ed estremamente diversi; si sono formate le diverse lingue, sempre per lo stesso motivo. Insomma tutta la biodiversità del mondo che noi ammiriamo e amiamo, da quella animale a quella vegetale si è formata come adattamento millenario a contesi climatici e ambientali differenti e costanti. Ci piacerebbe un mondo in cui vi fosse un unico tipo di uomo, un unico tipo di animale e un unico tipo di pianta? Che orrore!

Beh…la globalizzazione moderna tende a questo cioè alla standardizzazione.

Pensare che la superfice terrestre possa diventare un unico grande Paese dove vivere è pura stupidità o disonestà intellettuale per un banale ma fondamentale motivo: non siamo costruiti per vivere in un territorio così vasto, da percorrere con mezzi di trasporto così veloci e inquinanti stravolgendo il nostro fisiologico bisogno di ritmo e regolarità, di consuetudine quotidiana, di tradizione e affezione ad un luogo limitato e nostro e a certe, poche persone care.

Per ora mi fermo qui, ma essendo questo un argomento a me caro, seguiranno altre considerazioni, a puntate

A. Mercuri