Schizofrenia

(Articolo del dott. Angelo Mercuri)

La schizofrenia è un disturbo mentale cronico con manifestazioni psicopatologiche gravi quali deliri, allucinazioni, incoerenza e illogicità del pensiero e del comportamento. Ne è affetto dallo 0,5% all’1% della popolazione mondiale pertanto nel mondo vi sono dai 30 ai 60 milioni di schizofrenici. Solitamente è una malattia che colpisce i giovani tra i 15 e i 25 anni ed è ugualmente frequente nei due sessi anche se nella donne si manifesta più tardi e in forma meno grave. Ancora, vi è sicuramente una predisposizione genetica ad ammalarsi perché chi ha un parente schizofrenico ha maggiori probabilità di ammalarsi.

Vi sono chiaramente tante schizofrenie quanti sono gli schizofrenici però esiste un denominatore comune tra tutte le forme: la presenza di “ipofrontalità” cioè di un deficit delle funzioni mentali tipicamente umane che risiedono nei lobi frontali ed in particolare in quella sottile porzione superficiale degli stessi nota come “corteccia prefrontale”. Tale deficit si palesa in tutte le forme di schizofrenia, dalle più gravi alle meno gravi, con la presenza di apatia, astenia, abulia (mancanza di volontà), anedonia (incapacità di provare piacere), rallentamento ideo-motorio, incapacità di pianificare e dare una direzione ai propri pensieri e alla propria vita in generale, freddezza affettiva, difficoltà di comprendere lo stato d’animo proprio e quello altrui. Tale condizione di deficit, nei periodi di produzione allucinatoria o delirante della malattia, può essere mascherato dallo stato di eccitamento psicotico del soggetto, ma a ben guardare è sempre presente.

Un’espressione eclatante di ipofrontalità è l’incapacità del paziente schizofrenico di condurre un discorso dotato di senso, comprensibile all’interlocutore: è come se egli perdesse continuamente il filo del discorso e tale incapacità consegue al suo pensiero incoerente, dove le idee non si susseguono associate le une alle altre per trasmettere un messaggio chiaro ma gemmano incoerenti e disordinate le une dalle altre. Tale drammatica condizione di dissociazione è denominata deragliamento e tangenzialità del pensiero. Ancora, sempre a causa della disfunzione frontale, vi è nel paziente schizofrenico l’incapacità di disambiguare una frase, un discorso o una situazione servendosi del contesto in cui queste sono immerse; tale deficit è conseguenza di rigidità nelle rappresentazioni mentali e di incapacità di astrazione che insieme portano ad un tipo di pensiero definito “concreto”. Se ad un paziente schizofrenico cioè si chiedesse, ad esempio, cosa significa secondo lui il detto “Pietra che rotola non fa muschio” egli potrebbe rispondere: “Significa che quando una pietra cade rotolando giù da una collina o da una montagna il muschio su di essa non fa in tempo a crescere”; egli non è in grado cioè di individuare, estrarre e generalizzare il principio insito alla suddetta affermazione concreta astraendolo nel concetto che per costruire qualcosa nella vita si deve essere costanti.

Quello appena descritto è il quadro base, comune a tutte le schizofrenie, pur con gradi molto variabili di gravità. Su questa costante poi si sovrappongono solitamente altri sintomi in dosi variabili, quelli tipici del “matto”: deliri (tenacissimi convincimenti erronei anche bizzarri), allucinazioni (vedere o sentire cose che non esistono).

La vera difficoltà che si incontra nel curare la schizofrenia con i farmaci è dovuta al fatto che lo stesso neurotrasmettitore, la dopamina, è contemporaneamente carente a livello frontale (provocando i suddetti sintomi di deficit) ed eccedente in altre regioni cerebrali dove provoca eccitamento, deliri e allucinazioni: i farmaci antischizofrenici tradizionali, essendo anti-dopaminergici, danno un miglioramento dell’ eccitamento, del delirio e delle allucinazioni ma ovviamente un peggioramento dei sintomi legati all’ipofrontalità. Inoltre la dopamina regola anche il funzionamento del sistema extrapiramidale, preposto al corretto svolgimento dei nostri movimenti e una sua diminuzione provocata dai farmaci antischizofrenici tradizionali può causare rigidità, tremore, irrequietezza e discinesie. La causa della schizofrenia rimane in gran parte sconosciuta anche se ci sono evidenze di una componente biologica (anomalie nello sviluppo del cervello) e di una componente ambientale (eventi della vita stressanti). Solitamente, chi si ammala di schizofrenia aveva fin da bambino alcune caratteristiche anomale, le più eclatanti delle quali sono l’introversione, la tendenza all’isolamento sociale, l’ottundimento delle emozioni e degli affetti, una generica mancanza di entusiasmo per tutto ciò che normalmente emoziona e attrae gli altri bambini. Tali caratteristiche possono comunque rimanere presenti per tutta la vita senza portare ad un quadro conclamato di malattia e configurando quello che viene chiamato

“disturbo schizoide o schizotipico di personalità”: tale disturbo, semplificando, costituirebbe la forma più lieve di schizofrenia, il primo gradino di malattia che comunque può essere compatibile con una vita relativamente normale; alcuni eccellenti matematici si trovano su questo primo gradino e forse proprio la freddezza affettiva che li caratterizza consente loro di addentrarsi meglio nei meandri di una disciplina dove è ben noto che l’emotività gioca brutti scherzi.

Per uno schizofrenico è più difficile trovare un proprio posto e una propria dignità nei paesi industrializzati dove la vita è standardizzata e vi è lo stereotipo dell’efficientismo. Ritengo personalmente che una delle grandi conquiste sociali dell’umanità sarà quella di valorizzare le differenze individuali dando la possibilità di mettere a frutto come pregi alcune caratteristiche originali: ciò è l’esatto contrario della standardizzazione. Uno schizoide può diventare un genio della matematica se sappiamo assecondare le sue inclinazioni ma se lo costringiamo a studiare una materia con maggiori “sbocchi professionali” probabilmente lo trasformeremo in un infelice fallito.

Se notiamo in un adolescente o in un giovane dei cambiamenti in negativo come un ritiro sociale progressivo, una perdita di interessi, una tendenza a prediligere attività solitarie, dobbiamo insospettirci: è cosa nota che nella schizofrenia un intervento precoce può evitare il cronicizzarsi della malattia.

TERAPIA

Va premesso, con le parole di Scrimali che:

“…il paziente schizofrenico è caratterizzato da un’estrema sospettosità, diffidenza e mancanza di fiducia nel prossimo, che vive come ostile e minaccioso”. Detto questo si capisce che è indispensabile, come premessa a qualsiasi tentativo terapeutico, accattivarsi la fiducia del paziente attraverso competenza, sincerità, onestà e coerenza”.(1)

Per quanto riguarda la terapia farmacologica, ci sono due classi di farmaci antischizofrenici: quella tradizionale (serenase, talofen, largactil, trilafon, ecc.) e quella dei cosiddetti atipici (risperdal, ziprexa, abilify, ecc.), farmaci più recenti, ugualmente efficaci ma gravati da meno effetti collaterali. Tali secondi farmaci, oltre ad avere un’efficacia sovrapponibile ai primi sui sintomi positivi acuti, sono anche dotati di un certo effetto sulla sintomatologia negativa. Se ancora vengono prescritti gli antipsicotici tradizionali è per una questione di costi, per il fatto che in acuto sono forse più sedativi ma soprattutto perchè sono sul mercato da decine di anni e se ne ha una maggiore dimestichezza nella prescrizione.

Un discorso a parte merita la psicoterapia della schizofrenia: se è vero che in acuto gli psicofarmaci sono indispensabili, nella fase successiva è doveroso impegnarsi in un trattamento psicoterapico in associazione o addirittura in sostituzione dei farmaci.

La recente scoperta che il cervello può essere modificato strutturalmente dalla psicoterapia ha dato grande impulso alle ricerche in questo campo. Già da tempo si intuiva che il cervello fosse un organo plastico in grado di modificarsi lungo tutto l’arco della vita ma solo le sue recenti immagini acquisite mediante RMN, SPECT, PET hanno dimostrato che una psicoterapia efficace è in grado di promuovere la formazione di nuovi circuiti neuronali stabili la cui entrata in funzione spegne il funzionamento di quelli precedenti il che si traduce nella possibilità di sostituire un preesistente stile cognitivo e comportamentale errato con uno più adeguato. Non solo la chimica degli psicofarmaci o la fisica degli elettroshock dunque è in grado di interagire con la materia ma anche, e ancor dippiù la parola efficace.

Secondo uno studio pubblicato su “The Lancet” infatti la psicoterapia cognitivo-comportamentale è una valida alternativa agli psicofarmaci per chi soffre di schizofrenia e non può o non vuole assumere farmaci antipsicotici (quasi metà dei pazienti scelgono di non prenderli). Anthony Morrison, ricercatore all’Università di Manchester nel Regno Unito e coautore dell’articolo, spiega che nello studio in esame sono stati presi 74 soggetti tra i 16 e i 65 anni con disturbi schizofrenici. Il trattamento ha coinvolto un terapista che in collaborazione col paziente esaminava le esperienze psicotiche mirando a modificare pensieri e comportamenti che si erano rivelati erronei; metà dei partecipanti sono stati assegnati in modo casuale alla terapia cognitiva (26 sedute in 9 mesi) più il consueto trattamento psicofarmacologico, mentre l’altra metà solo al solito trattamento psicofarmacologico senza psicoterapia. I sintomi di entrambi i gruppi di pazienti sono stati poi valutati a intervalli regolari con la Positive and Negative Syndrome Scale (Panss): il punteggio Panss è ampiamente migliorato nel 41% dei partecipanti in terapia cognitiva + psicofarmaci contro il solo18% osservato nel gruppo dei soli psicofarmaci.

Gli obiettivi da raggiungere con la psicoterapia sono fondamentalmente:

  1. aiutare il paziente a prendere coscienza di malattia
  2. aiutarlo a distinguere tra mondo interno e mondo esterno
  3. sviluppare in lui la capacità di riflettere su se stesso e di autocontrollarsi
  4. insegnargli a comunicare il proprio pensiero in modo comprensibile.
  5. insegnargli a socializzare.
  6. insegnargli a gestire deliri e allucinazioni.

E’ ovvio che le fasi acute della schizofrenia (comunque non sempre presenti) con delirio e allucinazioni gravi necessitano del ricovero in una struttura psichiatrica e non sono gestibili ambulatorialmente.

5) Gestione di deliri e allucinazioni

Tradizionalmente in psichiatria, i deliri e le allucinazioni vengono gestiti unicamente con gli psicofarmaci perché considerati impervi a qualsiasi tentativo di convincimento: vi è invece la concreta possibilità di agire su di essi in modo permanente con una specifica tecnica psicoterapica.

La gravità delle allucinazioni è dovuta al fatto che il paziente non capisce che esse sono frutto del suo stesso pensiero ma crede che provengano da fonti esterne. Di importanza centrale in sede di psicoterapia sarà dunque fargli sperimentare che esse sono soltanto una modalità “insolita” di pensare e non sono reali; per far ciò gli si insegna la giusta strategia per verificare come esse siano sotto il suo dominio cioè influenzabili da egli stesso per quantità e qualità: questa esperienza ripetuta lo convincerà gradualmente riguardo la loro provenienza “ interna”.

Il delirio invece viene classicamente definito come un “convincimento errato non passibile di correzione nemmeno con argomentazioni logiche stringenti”.

In realtà il delirio dello schizofrenico appare impervio alla comprensione e quindi totalmente assurdo solo se analizzato con gli strumenti del pensiero razionale ma il soggetto schizofrenico, proprio per i suoi deficit frontali, ha un tipo di pensiero prevalentemente intuitivo che non è frutto di analisi razionale della realtà. Egli parte sempre comunque da un nucleo di verità dando poi ad esso interpretazioni intuitive di tipo magico-arcaico. E’ proprio questo nucleo di verità che lo psicoterapeuta deve ricercare per poi, una volta trovatolo, rifare col paziente il “salto intuitivo irrazionale” che lo ha portato all’interpretazione assurda delirante e cercare quindi di proporgli un’analisi della realtà più razionale e quindi più possibilista.

Riporto ora due esempi assai esplicativi citati dallo psichiatra Tullio Scrimali :

“Una paziente ribadiva che la madre le rubava i pensieri e che lei lo sentiva con certezza. Un approfondito colloquio con la madre mi ha portato a scoprire che aveva fatto installare una derivazione telefonica segreta in uno stanzino della casa in cui vivevano lei e la figlia grazie alla quale ascoltava veramente i dialoghi della ragazza con un giovane a lei molto sgradito. Quindi la paziente, quando diceva che la madre le rubava ipensieri, mostrava solo una concettualizzazione inadeguata di un processo emotivo corretto e cioè la sensazione reale che i suoi pensieri venissero segretamente carpiti” (1)

E ancora:

“Molti pazienti affermano di essere avvelenati dai genitori. Sembra un’idea delirante, ma lo è solo se si considera la logica cognitiva esplicita. Se invece attiviamo una ricerca ermeneutica, spesso scopriamo che i genitori mettono sistematicamente del serenase nei cibi di questi pazienti. Oltre a ciò, in realtà, avvelenano i figli anche con un atteggiamento di alta emotività espressa, ostile, critica e iper-coinvolta” (1).

Il terapeuta che si occupa del paziente schizofrenico dovrà mantenere una stretta collaborazione con la di lui famiglia che solitamente lo ospita e lo segue sia per avere notizie sul comportamento del paziente sia per individuare e correggere eventuali errori nella relazione col famigliare malato: per il paziente psicotico infatti è fondamentale l’ambiente familiare poiché egli più di chiunque altro ha bisogno di colmare le proprie lacune cognitive con la pronta offerta di una famiglia sana e matura dal punto di vista psicologico, affettivo e relazionale.

Le indicazioni del terapeuta andranno pertanto rivolte tanto al paziente che ai suoi familiari i quali si impegneranno a proporgliele ripetutamente e a guidarlo: non si può infatti pensare che la psicoterapia di un paziente schizofrenico si limiti solo al tempo della seduta perché egli, uscito dall’ambulatorio, tenderà a riprendere quasi istantaneamente il suo stile cognitivo-comportamentale errato.

(1) T. Scrimali, in Nuovo manuale di psicoterapia cognitiva, a cura di Bruno Bara vol 2° Bollati Boringhieri, Torino 2005